E così, ce l'ha fatta.
Il corpo di Eluana ha finalmente trovato la pace, raggiungendo la sua anima laddove se n'era andata molti anni fa.
Leggevo il bel pezzo di Sofri su Repubblica di oggi (qui), e c'è una frase che mi ha fatto riflettere, su qualcosa che mi frullava già in testa da qualche tempo.
Dice Sofri: "che tocchi a lui di uscire da una rianimazione in una condizione vegetativa irreversibile. Vorrebbe o no poter decidere, finché il senno e la fortuna siano dalla sua, come debba chiudersi la sua esistenza, o preferisce lasciarne il peso ai suoi figli, per giunta votando ad horas l'obbligo a nutrirlo artificialmente senza fine?"
Ecco, la cosa su cui si è molto discusso: come vorremmo uscire di scena, noi, se ci toccasse la sorte di Eluana? Ebbene, dico una cosa che non sarà condivisa da troppe persone: a me non importa.
Non mi importa perchè se fossi stata io al suo posto, non avrebbe fatto alcuna differenza per me. Che mi nutrissero o no, che mi facessero fisioterapia o no, che mi girassero su un fianco o quell'altro o che mi lasciassero marcire nel letto, non avrebbe cambiato nulla. Non è per il malato, che cambia. E' per chi lo ama.
E nemmeno mi interessa, ora che sono viva, sapere quello che accadrà quando sarò morta - perchè in quello stato sei morto - poichè i morti non sentono, non provano, non gioiscono e non soffrono.
E' per questo che dico: che decida chi resta, non chi va. Che facciano quello che li fa soffrire meno, che sia trattenere la persona cara o lasciarla andare. Chi va, ormai, è andato, non c'è più. Ma la sofferenza di chi rimane può essere lenita, forse e in certa misura, dal comportamento che si tiene dopo.
Uno come mio marito, per esempio, starebbe meglio se potesse decidere come il sig. Englaro. Ma una persona come mia suocera no, lei soffrirebbe il doppio. E allora perchè devo decidere io, quando a me, in quella sciagurata situazione, non cambierebbe nulla?
Che facciano quello che li fa soffrire meno.